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Direzione nazionale 29 luglio 2025

Giovanni Barbera

La scelta dell'Europa di accettare passivamente la linea protezionista e aggressiva degli Stati Uniti, oggi incarnata con particolare brutalità da Trump, non è frutto di irrazionalità o masochismo politico, ma il risultato delle contraddizioni strutturali dell'imperialismo europeo e della debolezza strategica delle sue classi dirigenti. L'Unione Europea, lungi dall'essere una potenza sovrana, è un progetto fragile, lacerato da profonde divisioni interne e privo di una vera politica estera, industriale e militare comune. Germania e Francia perseguono interessi divergenti, i paesi dell'Est si allineano docilmente alla NATO e l'Italia resta relegata a un ruolo subalterno e marginale.

In questo contesto, l'aggressività di Trump non trova alcuna risposta autonoma. Al contrario, accentua la storica subordinazione atlantica, radicata nel dopoguerra e aggravata dopo il 1989 e la crisi del 2008. Il capitale europeo, pur penalizzato da dazi e ricatti, non ha né la forza né la volontà di rompere con Washington. Preferisce sacrificare settori produttivi, posti di lavoro e consenso sociale, piuttosto che perdere l'equilibrio geopolitico e il controllo politico interno. Teme Trump, ma ancor più la disgregazione della UE.

A rendere tutto più drammatico è l'assenza di una credibile alternativa politica. La sinistra radicale è debole e frammentata e i movimenti sociali faticano a incidere.
L'accordo sui dazi con gli USA – che impone tariffe del 15% su molti prodotti europei – infligge un colpo durissimo al potere d'acquisto delle classi popolari, già fiaccate da inflazione, precarietà e austerità. Secondo SVIMEZ, l'Italia rischia una perdita del PIL di 6,3 miliardi di euro (–0,3%) e un crollo dell'export di 8,6 miliardi (–14%) all'anno. Oltre 103.000 posti di lavoro a tempo pieno sarebbero a rischio, in particolare nelle aree industriali del Nord, ma anche il Mezzogiorno subirebbe gravi contraccolpi. A questo si aggiungono i costi del riarmo imposti dalla NATO: fino a 115 miliardi di euro all'anno, pari al 5% del PIL, sottratti a scuola, sanità e welfare.
Con questo accordo, l'Europa viene sempre più ridotta a colonia economica e militare: mercato di sbocco per le merci americane e retrovia delle loro guerre sistemiche contro Russia, Cina e i paesi che si sottraggono all'ordine unipolare.

Di fronte a questa deriva, serve una mobilitazione di massa, sociale e popolare, che unisca chi rifiuta la guerra, l'austerità e il declino economico. È il momento di costruire un fronte largo, radicato nei territori, capace di intercettare il malessere diffuso e tradurlo in forza politica. Non bastano alleanze tra sigle autoreferenziali.
Per assumere questo ruolo, però, è necessario un salto di qualità. Il rafforzamento del Partito è condizione essenziale per non restare spettatori. Il lavoro di organizzazione e strutturazione interna deve andare di pari passo con quello di mobilitazione esterna. Non c'è radicamento senza conflitto reale, né direzione politica senza organizzazione.

Abbiamo un'occasione storica per tornare a essere un punto di riferimento nel Paese, come lo siamo stati in passato, prima di rinchiuderci in quel recinto ideologico autoreferenziale che ha segnato il nostro progressivo indebolimento. Oggi, ricostruire un Partito comunista di massa, ancorato ai bisogni reali delle classi popolari, non è solo possibile, ma anche urgente e necessario, se vogliamo dare allargare la mobilitazione sociale e politica e cambiare i rapporti di forza tra le classi.

In questa prospettiva, l'autunno deve diventare un tempo di iniziativa politica diffusa, con assemblee nei territori e campagne capaci di legare la lotta contro il carovita, i tagli al welfare e la precarietà alla denuncia dei costi sociali del riarmo e dell'allineamento alla NATO. Solo se sapremo unire le rivendicazioni sociali alla lotta contro la guerra e il neoliberismo potremo ricostruire un'opposizione vera e una proposta politica alternativa nel Paese.

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